gli animatori lo hanno visto così :         BENE

                                                            COSI’-COSI’

                                                            MALE

                                                

CESARE DEVE MORIRE

 

 

DOM pom

DOM sera

MAR

MER

GIO

VEN

 

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matteo mazza

domenica pomeriggio

Conoscere l'arte rende liberi e consapevoli. Il Cesare dei Taviani lo dice, lo mostra, lo ricorda e lo mette in scena, senza mai dare per scontato il senso di una libertà che in carcere, come fuori, si gioca tutta nella dignità della persona. Sì, ecco, forse è proprio così: questo è un film sulla dignità ri-trovata, un film che prende lo sguardo dello spettatore e lo imprigiona sui volti di chi è nascosto dietro le sbarre dentro una cella e non vuole più sentirsi nascosto ma vuole sentirsi parte, essere visto, ascoltato, compreso. Un film che mescola finzione e realtà fino a sovrapporli, sull'entrare e l'uscire, sul riempire e sullo svuotare, sull'aprire e sul chiudere, sulla giustizia e le ingiustizie, le colpe e i sensi di colpa. Cinema che sintetizza la realtà, ma pure che la amplifica.

giulio martini

domenica sera

i fratelli toscani confezionano un film "metalinguistico" alla loro maniera un po' selvatica un po' intellettualistica , meditando sulle implicazioni sempre traumatiche e feroci delle "strutture" sociali , dentro e fuori il carcere.
Ma non c'è voglia di rivoluzione, non c'è più speranza di sovvertimento civile. Resta solo la tragica conferma - a se stessi - che contro i "padroni" ( Padri o Cesari che siano ) è inevitabile l'uso della violenza, anche se solitaria e non capita o condivisa dalla maggioranza degli altri oppressi. A consolarli, ormai marxisti ottuagenari, resta appena la "nobiltà espressiva " del gesto e la "bellezza artistica " del racconto ( sheakespeariano e cinematografico ) che la descrive e la giustifica , nella sua sublimità utopica.

angelo sabbadini

martedì sera

Forza della parola shakespeariana capace di tradurre i pensieri, le pulsioni e le rabbie degli “uomini d’onore” di Rebibbia in uno psicodramma forte e struggente. E bravi i fratelli Taviani a credere nella straordinaria efficacia terapeutica del teatro. Con un paradosso che non sfugge ai frequentatori del cineclub: la parola teatrale risulta molto più vera e efficace delle confessioni dei reclusi.

carlo caspani

mercoledì sera 

La saggezza della maturità, la passione di sempre per un film (non parlate di documentario o docufiction, quelle sono cose da History Channel)contemporaneamente semplice e profondo, che fonde Shakespeare, galeotti, senso tragico dell'onore, dialetti, bianco e nero e colori sanguigni in modo compatto e fortissimo. Nessun riscatto a Rebibbia, se non quello della presa di coscienza, attraverso l'Arte, della propria condizione e del proprio essere

fabio de girolamo

giovedì sera

Non è il solito film semidocumentaristico. Il realismo è relegato ai margini del racconto, nella cornice iniziale/finale a colori che mette in scena paradossalmente due situazioni estreme: il realismo della messa in scena teatrale (lo spettacolo per i parenti) e quello del monotono quotidiano carcerario (il rientro in cella). In entrambi i casi si racconta la vita in carcere, il suo lato feriale e festivo. Poi arriva il cinema, e il cinema è pura finzione. Gli attori/carcerati vengono chiamati a recitare il Giulio Cesare e se stessi alla stessa stregua. L’effetto è straniante. Il continuo entrare e uscire dalla parte nella tragedia shakespeariana rompe l’effetto di totale coinvolgimento con un punto di vista più oggettivo, riflessivo. Stesso dicasi per la messa in scena di se stessi. Gli attori sono costretti a guardarsi da fuori, a riflettere su se stessi anche alla luce di Shakespeare. L’effetto è catartico, in teoria, se non fosse che per un carcerato, per un non-libero, non c’è possibilità di verifica sul campo, alla prova dei fatti. Non resta altro che tornare al monotono, solitario quotidiano di sempre.
giorgio brambilla venerdì sera I fratelli Taviani, approfondendo il lavoro del regista teatrale Fabio Cavalli, ci offrono un film importante sia come atto di civiltà sia come prova cinematografica. Dal primo punto di vista portano l'arte in carcere, contribuendo così al processo di rieducazione dei detenuti di Rebibbia. Dal secondo ci propongono un'opera tesa e densa, nella quale realtà e finzione si richiamano e si sostengono reciprocamente. La realtà sostiene la finzione perché i detenuti sanno bene di cosa si parla: tradimento, fedeltà, potere, uomini d'onore, e ciò permette loro di sopperire alla propria mancanza di preparazione attoriale. Inoltre il carcere si rivela una scenografia sorprendentemente consona, nella sua essenzialità, a raccontare una storia ambientata duemila anni fa. La finzione sostiene la realtà perché le parole di questo testo shakespeariano così vicino alle loro esperienze li portano a riflettere sulla propria condizione e sul proprio passato e, con l'esperienza nel suo insieme, fa loro intuire la possibilità e avvertire l'urgenza di una vita diversa. Il valore del film risulta quindi raddoppiato .