gli
animatori lo hanno visto così : BENE COSI’-COSI’
MALE
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GLI AMICI DEL BAR MARGHERITA |
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Secondo alcuni filologi il nome "Italiani"
deriva da un antivo " V-italoi " cioè "adoratori
dei Vitelli". probabilmente è vero, siamo un popolo di
scansafatiche, di perditempo, dispersivo ma soprattutto assiduo
frequentatore di quella strana istituzione italica - diversa dai Pub inglesi
o dalle Birrerie tedesche - che è il luogo maschile per
eccellenza dei fannulloni e degli orditori di scherzi, cioè il bar. Si vedano a riguardo o il Germi di
"Signore e signori" o "Quei bravi ragazzi" di Scorsese. Eppure qui c'è soprattutto l'anima
emiliano-romagnola ( già strabocchevole in Fellini) del bolognese
Avati, il quale al solito fa sempre tutto in versione mignon
rispetto al maestro di Rimini. Tuttavia, nonostante qualche limite nel
ritmo, come ripete lo stesso Abatantuono nel film, la
sua ennesima storia nostalgica d'assieme nel suo piccolo, senza
ideologie e senza tragedie, non è poi male. |
angelo
sabbadini |
martedì
sera |
Il prolifico Pupi Avati solleva dopo
cinquant'anni la saracinesca del bar Margherita e chiama a raccolta gli
sghembi avventori dello storico bar bolognese. Le cialtronesche figurine sono
però ampiamente scontate nelle loro eccentricità e poco aggiungono al
risaputo ritratto dell'Italietta dei tempi che furono. |
carlo
caspani |
mercoledì
sera |
Pupi Avati (vien da dire "il solito Avati") con
un'altra puntata di ricordi personali venati di nostalgia e di piccole
ossessioni (quelle feste col grammofono e i vestiti a palloncino delle
ragazze...) |
marco
massara |
giovedì
sera |
Non esiste una legge che
impone di fare un film all’anno, tuttavia Pupi Avati non sa rinunciare
a sfornare anche quando l’ispirazione latita….. (anche se nella mia modestissima esperienza di film-maker wHp so
benissimo che il fascino del set è qualcosa a cui resistere è difficile). I personaggi (meglio i
‘tipi’) frequentatori del bar Margherita si muovono con troppa
prevedibilità e, verso il finale, con
qualche nota eccessivamente greve . Anche la patina di
“nostalgia”, così caratteristica nel cinema avatiano (avatar
degli anni ’50?) sembra ripiegarsi su se stessa senza nessuna speranza
di apertura al nuovo. “Al bar Margherita succedono sempre le stesse
cose” dice Taddeo nel finale e lo spettatore è costretto ad inserire il
‘pilota automatico’ e ad assistere passivamene a vicende in cui
manca qualsiasi forma di conflitto, il vero motore di ogni azione
drammaturgica. C’è solo la burla. Non basta una eccellente
ricostruzione d’ambiente, costumi e trovarobato, né i bravi e
collaudati attori (esclusa Laura Chiatti, ‘paracarro’ di bella
presenza scenica) a salvare un’opera che sembra proprio un compitino
svolto per onore di calendario. |
giorgio
brambilla |
venerdì
sera |
Per me che sono un fan di Pupi avati è sempre
un piacere ritrovare storie sincere raccontate con adeguato cinismo. Molto
meno gradevole è dover sorbire una sceneggiatura un po' approssimativa, con
personaggi poco consistenti e promesse
non mantenute: che ne è, ad es., di
tutte le “penne” conquistate degli amici? È vero che “forse
esistono e forse no”, ma noi non ne vediamo neanche una. Anche la
srtoria dell'innamoramento di Taddeo/Coso non pare sviluppato come si deve.
L'impressione è che si debba far ricorso all'invasiva voce narrante perchè la
storia da sola non si regge. Ci si diverte guardando gli amici del bar
Margherita, ma quando le luci si riaccendono resta pochino. |