La critica
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La Stampa (11/3/2002) Alessandra Levantesi |
Forte di sette meritatissime candidature all´Oscar, fra cui quelle per il miglior film e la migliore regia, «Gosford Park» è un film da non perdere. Ambientato nell´Inghilterra del 1932 è costruito come un giallo alla Agatha Christie, tanto che il titolo originario doveva essere «Dieci piccoli indiani di nuovo insieme», e tuttavia l´aspetto del thriller è secondario. «Gosford Park» può essere descritto meglio come una radiografia del rigido sistema di classe britannico prima che la seconda guerra provvedesse a scompaginarne un poco le carte. In un freddo e umido week-end di novembre si riuniscono nella lussuosa dimora di campagna dell´aristocratico Michael Gambon alcuni illustri ospiti accompagnati dai rispettivi camerieri. Snob ed egoisti, nei piani alti i ricchi invitati trascorrono il tempo tra colazioni, tè pomeridiani e cene, intrecciando futilità e gioco avido di interessi: vedi la supponente zia (l´eccellente Maggie Smith, candidata come attrice non protagonista) dell´altera e seducente Kristin Scott Thomas, moglie di Gambon. Mentre ai piani bassi i servitori, dall´impareggiabile maggiordomo Alan Bates alla scorbutica cuoca Eileen Atkins alla cameriera Emily Watson, lavorano alacremente, scambiandosi pettegolezzi sui padroni e appassionandosi alla vita di questi come se non ne avessero una propria. Dice la governante Helen Mirren: «Io non ho vita privata: sono una cameriera perfetta». Quando Gambon viene trovato ucciso nel suo studio, se fossimo in un mystery classico la domanda sarebbe: «Chi lo ha fatto?». Ma in «Gosford Park», che è un giallo quanto «Nashville» è un musical, ciò che conta è il perché: al solito Altman va oltre le regole del genere e le ridefinisce secondo un suo geniale disegno. Incaricato di risolvere il caso, il commissario Stephen Fry non ne verrà a capo in quanto, da buon rappresentante della classe dominante, non sarà in grado di capire che la commedia umana si svolge non solo nei salotti, ma anche nei guardaroba e nelle cucine. C´è una scena significativa in questo bel film dove niente è lasciato al caso. Jeremy Northam, che impersona con perfetto stile d´epoca l´unica figura esistita, l´attore Ivor Novello, canta accompagnandosi al piano alcune canzoni celebranti in chiave romantica i rituali dell´alta società. Gli aristocratici lo ascoltano con imbarazzata sopportazione, mentre su quelle note quella idealizzazione i servitori seminascosti nell´ombra sognano. Animato da fantastici interpreti e imbastito (nell´impeccabile scenografia di Stephen, il figlio di Altman) con l´inimitabile arte che ha il maestro di introdurre una ventina e oltre di personaggi facendoli andare e venire sullo schermo come se fossero liberi di muoversi a loro piacere, «Gosford Park» è gradevolissimo, ma alla fine ti lascia dentro il sapore amaro di come va la vita. |
Film TV (12/3/2002) Manuela Martini |
Trasferta Britannica di Robert Altman, che porta la sua compagnia di giro a "GOSFORD PARK", una tenuta della campagna inglese, nel 1932, per un fine settimana di caccia, pranzi, colazioni e piccoli intrighi. Questa volta i personaggi sono 36:14 signori, ai piani alti, 20 domestici, ai piani bassi, più un ispettore e un poliziotto che a due terzi del film si presentano per indagare sull'inevitabile omicidio che, nella miglior tradizione del giallo britannico d'epoca, arriva a far saltare l'equilibrio apparente dei rapporti. 0 almeno dovrebbe. Intatti, non solo il "whudonit" (chi é stato?) sembra importare pochissimo ad Altman (molto più affascinato dalla minuziosa osservazione delle relazioni sociali), ma anche i diretti interessati appaiono ben poco coinvolti. E’ la vita nella sua eterna finzione che continua a riprodursi, e non c'è incontro, d'amore, di odio o di scherno, che intacchi minimamente la maschera che ognuno indossa come una seconda pelle, che arrivi a scalfire un pezzetto di cuore o di coscienza. Solo il passato conta, quello che si é stati e che si é spesso dimenticato. Giocando su una sceneggiatura originale che mima una pièce teatrale, Altman si butta tra i suoi personaggi, li aggancia, li pedina, li costringe a rivelare, quasi sempre, il peggio di loro stessi. Chiuso nell'unità di luogo (la villa) e di tempo (due giorni), "Gosford Park" ricorda molto "Un matrimonio", soprattutto nella prima parte, nei suoi saliscendi per la casa, a scoprire una taccia, un tradimento, un vizio, una simpatia, a tessere la tela di un universo che pare intrappolato in se stesso com'era quello della famiglia Corelli. Per una volta, solo la gente di cinema (il divo Ivor Novello e il produttore di Hollywood) sembra possedere uno spiraglio di vitalità, e forse la capocameriera Elsie che, comunque, decide di provare a cambiar vita. Per gli altri, vale solo il gioco di superficie e l'odio profondo che regola la convivenza tra le classi e all'interno della stessa classe. Certo, non é l'Altman più grande, un po' slabbrato soprattutto nella seconda parte; ma sono pochissimi gli autori che sanno guidare un set del genere con tanta leggerezza. |
la Repubblica (11/3/2002) Natalia Aspesi |
Sotto una pioggia scrosciante, una Rolls Royce arranca lungo una stradina di campagna verso una di quelle immense e lussuose "country house" che la grande aristocrazia inglese ha già ceduto ai disprezzati nuovi super-ricchi. Sul sedile posteriore la vecchia contessa di Trentham (Maggie Smith), impellicciata e ingioiellata, non riesce ad aprire il thermos. E imperiosa chiama la sua nuova giovane cameriera Mary, (Kelly MacDonald) seduta accanto all'autista, perché lo faccia lei: sotto il diluvio, e senza ombrello, oggetto che non compete ai sottoposti in servizio. Si accosta un'altra Rolls Royce e inizia una mondana conversazione tra la contessa e Ivor Novello, idolo del cinema inglese, e Morris Weissman, il produttore americano dei film di Charlie Chan. Mary resta sotto la pioggia, come se non esistesse, perché come cameriera, davvero non ha diritto di esistere. E' il novembre del 1932, Hitler non è ancora andato al potere in Germania ma in Inghilterra, sotto il regno di Giorgio V, l'Impero è naufragato nel Commonwealth, incombe la disoccupazione, il potere è in mano ai conservatori e sono in tanti, soprattutto tra le vecchie nobili famiglie, ad ammirare il fascista Oswald Mosley. Subito dall'inizio si capisce che il film di Robert Altman (premio alla carriera all'ultimo festival di Berlino) Gosford Park, (candidato agli Oscar) è di quelli irresistibili: 137 minuti che sembrano pochi, di interni opulenti, di abiti splendidi, di attori magnifici, ma anche di amori sventati e di conflitti sociali raccontati nel momento cruciale di una società al tramonto, gelida e snob, classista e razzista, arroccata nei privilegi di censo, prestigio, amoralità e bon ton, che sarà spazzato via pochi anni dopo dalla seconda guerra mondiale. C'è Agatha Christie, c'è Evelyn Waugh, c'è Kazuo Ishiguro, e i film tratti dai loro romanzi, una riunione con delitto di "Dieci piccoli indiani" (René Clair), l'ironica e amara descrizione della ricca società inglese di "Il matrimonio di Lady Brenda" (Charles Sturridge), il rapporto di imperio e sudditanza reciproca tra padroni e servitù di "Quel che resta del giorno" (James Ivory). C'è anche il ricordo di una magnifica serie televisiva inglese "Su e giù per le scale" che la Rai trasmise anni fa, quando ancora credeva che gli spettatori potessero anche essere non del tutto sanremizzati. Nella grandiosa dimora, che è in parte Syon House, una di quelle magioni di campagna che in passato rappresentavano, come scriveva il marchese di Aberdeen, “L'età del denaro, in tutta la sua gloria, ostentazione e volgarità”, arrivano per il fine settimana di caccia autunnale, una dozzina di ospiti prestigiosi accompagnati dagli indispensabili valletti e cameriere personali. Il padrone di casa è Sir William, (Michal Gambon) l'odioso nuovo ricco diventato baronetto comprando insieme la bella moglie e il suo titolo. Nell'intrico di corridoi "upstairs", ai piani alti, dove alloggiano i padroni, e degli scantinati "downstairs" dove pullula una folla indaffarata di servi, tutti si muovono nervosi, inquieti, infelici, sospettosi. Nei saloni pieni di fiori e quadri antichi, attorno alla lunga tavola apparecchiata sontuosamente, si intrecciano discorsi fatui e cattiverie, sotto gli occhi disgustati degli impeccabili camerieri, sempre presenti, pronti al pettegolezzo, alla maldicenza, alla delazione. Ignorati e maltrattati dai padroni, (ma loro sputano sulle forchette d'argento prima di sistemarle), riproducono tra loro le gerarchie dell'alta società, bistrattando quelli ritenuti inferiori: la governante (Helen Mirren) ha potere assoluto sulle cameriere, (anche sulla eccezionale Emily Watson) la cuoca (Eileen Atkins) sulle sguattere, il maggiordomo (Alan Bates) sui lacchè e sui valletti, (tra cui Derek Jacobi) mentre il personale degli ospiti non ha diritto al proprio nome ma solo a quello del padrone. Come ci si aspettava, Sir William viene trovato nella classica biblioteca con un coltello piantato nella schiena. In tanti, abbiamo appreso, lo detestavano, ne avevano subito la spietatezza e la grettezza, nessuno lo piange, meno di tutti la moglie: gli indizi sono tanti, noi alla fine sapremo tutto, ma il pessimo detective (un festoso Stephen Fry) con pipa, non scoprirà nulla. Il film è troppo leggiadro per evocare il marxismo e le classi oppresse, troppo amaro per suscitare qualsiasi nostalgia di una società raffinata e stupida. Il nuovo, nel chiuso della impenetrabile casta, lo portano, temuti e ridicolizzati, l'America e il cinema, rappresentati dal produttore ebreo e omosessuale, (Bob Balaban, anche produttore del film) e dal bell'attore e compositore Ivor Novello, un personaggio vero che recitò nei primi film inglesi di Hitchcock. Impersonato dall'affascinante Jeremy Northam che canta nel film le sue canzoni: tra l'impazienza dei padroni e l'incanto della servitù che ascolta nascosta. |
l'Unità (8/3/2002) Alberto Crespi |
«Lasciatemi divertire», diceva il poeta. Appello quanto mai sacro e santo: quando gli artisti veri si divertono il loro spasso si comunica a noi comuni mortali. Robert Altman dev'essersi divertito un sacco a girare Gosford Park. Magari Nashville, 27 anni fa, fu anche causa di stress; ma oggi (passato attraverso Un matrimonio, I protagonisti e America oggi, gli altri suoi grandi film corali) il grande vecchio di Kansas City sa gestire cast stellari con una padronanza unica al mondo. Con lui, l'attore-sceneggiatore Bob Balaban cascava bene: solo Altman avrebbe potuto dirigere il traffico in Gosford Park senza provocare incidenti. La vera differenza rispetto ai film citati si chiama Inghilterra: ha ragione la somma attrice Helen Mirren (uno dei tanti fuoriclasse radunatisi per l'occasione) a sottolineare che questo é un film nemmeno britannico, ma profondamente, squisitamente inglese. Solo in Inghilterra é concepibile una società in cui le distinzioni di classe siano così rigide e scandite, fino a coincidere con le differenze di cultura, di comportamento e di accento (quest'ultimo azzerato, ahinoi, da un doppiaggio italiano corretto ma inevitabilmente inadeguato). Il fatto che siamo nel 1932 ha un senso (Hitler non é ancora al potere, l'Impero non corre pericoli, l'Europa non ha ancora fatto «boom!»), ma quella che Balaban, Altman e lo sceneggiatore Julian Fellowes mettono in scena é la più precisa cristallizzazione della società inglese che avevamo visto almeno dai tempi del Free Cinema, dei primissimi drammi di Pinter e di Messaggero d'amore di Losey. Questi sono i referenti culturali profondi (almeno di Fellowes, inglese e di classe elevata), altri sono quelli più esteriori: Altman definisce il film come «La regola del gioco più Dieci piccoli indiani». Del capolavoro francese di Jean Renoir Gosford Park riprende la struttura narrativa, del famoso giallo di Agatha Christie l'ambientazione. Anche se i patiti della signora del brivido rintracceranno facilmente una citazione di Assassinio sull'Orient-Express, e fermiamoci qui: proseguendo, diremmo troppo. Gosford Park é dunque la tenuta di campagna dove una banda di nobili e sedicenti tali si raduna per una battuta di caccia. A ciascuno di loro corrisponde un servitore che abita il livello «inferiore» del castello: la cosa più buffa é che i domestici si chiamano fra loro, per non creare confusione e ribadire i ruoli, con il nome dei rispettivi padroni. Il vero tema del film si nasconde proprio in questa trovata: Altman, Balaban e Fellowes ci dimostrano come l'universo dei sottoposti ricrei al proprio interno gli stessi meccanismi psicologici e sociali, ergo le stesse discriminazioni, del mondo «superiore». Ma uno dei servi ha un segreto, ed é li per fare vendetta: così, nel bel mezzo di un week-end apparentemente innocuo dove tutti sparlano di tutti, avviene un omicidio. Viene ucciso il Lord capo, superiore di tutti e padre di molti. Arriva un poliziotto, una parodia di Poirot che indaga senza capir nulla. Ma ad Altman non interessa certo trovare un colpevole: ce ne ha già descritti tanti, colpevoli di esser nati, di essere animali sociali nella giungla borghese; tutti pronti ad uccidere. Quasi superfluo sottolineare la bravura di un cast che raduna il meglio della recitazione inglese (quindi: mondiale) contemporanea. Citiamone qualcuno alla rinfusa: Michael Gambon, Alan Bates, Maggie Smith, Helen Mirren, Emily Watson, Derek Jacobi, Krystin Scott-Thomas, Stephen Fry, Richard E. Grant, Eileen Atkins. É come vedere Inghilterra-Resto del Mondo. Stravince l'lnghlterra, quando si tratta di attori. |
il Manifesto (31/3/2002) Mariuccia Ciotta |
Nel 1931 Clara Bow esce di scena e nel 1933 scende in campo Adolf Hitler. Nell'anno tra i due avvenimenti, è ambientato il film di Robert Altman Gosford Park, sospeso tra la fine del cinema muto, le belle speranze del XX secolo, e il cupo marcire dell'Europasprofondata nel rimpianto del suo impero coloniale. Divisa tra rigididissime etichette - valletti, argenterie, esercito di servi, rituali - e l'ingordigia del denaro - operai schiavi e saccheggio dei paesi terzi. Il Sudan, colonia inglese, per esempio, dove sir Williams ha intenzione di aprire certe attività redditizie... Altman, che nei giorni scorsi ha sfiorato l'Oscar (era candidato per la regia) si è ispirato ai gialli di Agatha Christie per il suo film corale ambientato nel novembre del 1932 in una dimora monumentale nella campagna inglese. Da America oggi (Short Cuts) a Inghilterra ieri, anzi domani, perché l'amarissimo clima di morte, la sensazione di uno sguardo nell'abisso sa di moderno. Ma l'ironia cattiva sugli States o quella più acida sulla Francia di Prêt à porter sfumano in questo lugubre ritratto della folla di nobili invitati per un week-end di caccia. Un cast di attori mozzafiato conducono le danze di Gosford Park: Maggie Smith, velenosa pettegola senza un penny, Kristin Scott Thomas, moglie spietata del padrone di casa, Emily Watson la sua inquieta cameriera-amante, attrice Dogma (Le onde del destino) evocata in questa specie di Festen britannica, dove tra cristalli e sete, incombono i più mostruosi segreti. Tipo: sir Williams approfittava delle sue operaie, e le costringeva, pena il licenziamento, a separarsi dai bambini concepiti, che finivamo in orfanotrofio o morivano di stenti. L'allegria oltraggiosa di Scene di classe a Beverly Hills del genio scomparso Paul Bartel si scorge in lontananza. Qui i mille intrecci inestricabili, complotti, dispetti, bugie, amori si fondono in una monotona massa oscura, in un ritmo senza ritmo, in un unico lunghissimo corteo di servi e padroni che scendono e salgono scale, dalle profondità nere delle cucine e dell'ala riservata ai domestici fino alle stanze damascate degli ospiti. Stephen Fry, Ryan Philippe, Derek Jacobi, Charles Dance intrecciano alta recitazione sulla sceneggiatura firmata da Julian Fellowes, e dove spiccano Alan Bates, capo cameriere, e Helen Mirren, capo del personale femminile, la «serva perfetta» a cui nulla sfugge. Sir Williams sarà ucciso, due volte. Veleno e coltellaccio da cucina. Per le indagini arriva una specie di parodia di Mister Poirot più Monsieur Hulot. Ma in realtà il gioco investigativo è diretto dall'occhio pervasivo della servitù, che più di ogni altro è «corpo del reato». Ma cosa c'entra Clara Bow, la «it girl», la ragazza con quel nonsoché degli anni venti di Hollywood? «Non voglio vederla circolare sul mio set!» urla al telefono il piccolo regista americano, oggetto di scherno per gli aristocratici inglesi, ospite d'oltreoceano, noto per le sue pellicole sul detective cinese Charlie Chan. Clara Bow, la rossa tutto pepe, sprediugata attrice del silent movie, finì la sua carriera con il cinema sonoro a causa del suo sgradevole accento nasale tipico di Brooklyn. Così, mentre la villa di Gosford Park affondava nello scandalo e nel delitto, il regista americano, interpretato dal regista (e co-ideatore del film) Bob Balaban parlava al telefono con Hollywood per un'ennesima pellicola thriller in cui pretendeva Claudette Colbert al posto della bella Clara dalla brutta voce. Il sonoro segnerà la fine di feste e di comiche, di ricevimenti e di balli e darà al «resto del giorno» il sapore del sangue. |
Sole 24 Ore (17/3/2002) Roberto Escobar |
Da qualche parte dev'esserci un altro mondo, un posto meno crudele... Così canta Ivor Novello (Jeremy Northam). Seduto al piano, sta svagando gli ospiti di Sir William McCordle (Michael Gambon). Dalla parte "buia" della casa - dalle cucine e dalle soffitte , a uno a uno le cuoche, le cameriere e i valletti sono confluiti fin nella parte "luminosa". Silenziosi e commossi, adesso origliano dietro le porte del salotto. É questo un momento cruciale dello splendido Gosford Park (Usa, 2002, 137'). Robert Altman lo ha preparato con ironia e anzi con sarcasmo nella prima metà del film (girato come un poliziesco alla Agata Christie, ma con un "ispettore" delizioso, a metà fra il Clouseau di Peter Sellers e l'Hulot di Jacques Tati). 0ra, dunque, servi signori sono divisi e uniti: divisi nei ruoli, ma uniti dalle parole della star di Hollywood. Da qualche parte dev'esserci un altro mondo, un posto meno crudele... Poco prima, attorno all'eleganza d'una tavola imbandita, qualcosa aveva rotto l'incanto signorile, la messa in scena rituale della superiorità di classe. Lady Sylvia McCordle aveva urlato il suo odio al marito, e lo aveva accusato "in società", senza freni d'ipocrisia, d'essere l'amante d'una serva. E lei, la serva, aveva reagito da pari a pari, con una dignità che aveva mandato in frantumi ogni pretesa distanza sociale. Sorprendente, fulmineo, il veleno aveva dunque finito per mostrarsi. E non si tratta dello stesso veleno che, da lì a poco, avrebbe ucciso Sir William e che Altman inquadra più volte, sparso un po' ovunque, in bottiglie scure con la scritta minacciosa poison. Si tratta invece d'un rancoroso, feroce veleno dell'anima, verità profonda e volgare delle vite dei padroni di casa e dei loro sodali. Sono del tutto false, quelle vite. Niente le riempie, se non il vuoto della convenienza, sia sociale sia economica. Per quanto tutti stiano ben saldi nella comune identità di gruppo, tuttavia ognuno è disperatamente solo. Sir William lo è a tal punto che il suo (futuro)assassino potrebbe essere un qualunque dei suoi pari, o uno qualunque dei suoi servi. D'altra parte, i primi dipendono da lui e dal suo arbitrio come e forse più dei secondi. Attorno a quella tavola con le due forchette che l’etichetta impone d'usare per il pesce, e con lo snobismo acido di Sua Signoria Lady Constance (una perfetta Maggie Smith)-, attorno a quella tavola, dunque, l’ipocrisia e il formalismo per un attimo si squarciano. Non ci sono più servi e non ci sono più signori, ma solo uomini e donne che si odiano e che, ancora per convenienza, cercano poi di tornare alle loro identità di gruppo, come se il veleno non corresse nelle loro vene. In fondo, per tutto il film la regia e la sceneggiatura di Julian Fellowes (tratta da un’idea di Altman e Bob Balaban) questo fanno, con sistematicità: scavano nell’identità di gruppo dei signori, demolendola e portando in superficie le singolarità, le miserie d'ognuno ben nascoste nella prosopopea di tutti. Qualcosa di simile vale anche per il gruppo speculare, quello dei servi. Benché i signori non ne vedano l'alterità - ai valletti si impongono i nomi dei loro rispettivi padroni -, benché non ne distinguano neppure l'umanità "Lui non esiste", dice uno di loro a proposito di Jennings (Alan Bates) -, tuttavia ne hanno bisogno proprio come d'uno specchio. Solo in quello specchio riconoscono l'immagine (rovesciata) di sé. Come potrebbe mai brillare la "luce" del loro salotto, se non a confronto dell'"ombra" di cantine e soffitte? E questo comporta che le singolarità dei servi debbano confondersi nell'identità del gruppo, suggello e conferma dell'identità dei signori. In quell'ombra e in quelle cantine e soffitte, tuttavia, sempre più Altman scopre le differenze, le ribellioni, le decisioni di non vivere vite d'altri. Insomma: scopre le biografie. E proprio in questo c'è il sarcasmo più radicale di Gosford Park: nel fatto che Sir William paghi con la morte non tanto le sue molte colpe, quanto la noncuranza sempre ostentata nei confronti di quelle biografie e differenze. I suo servi lo uccidono, tutti i suoi servi insieme, anche se solo con il desiderio. Ma ognuno di essi lo fa come singolo, con un odio e un risentimento che sono suoi nel profondo. D'altra parte, quanto al desiderio, anche i suoi pari sono suoi assassini. Quando il film si chiude e tutti s'allontanano dalla grande casa, ognuno colpevole e ognuno impunito, di nuovo si sente la canzone di Ivor Novello, divo di Hollywood. Ci dev'essere un altro mondo, ci dev'essere un posto meno crudele, da qualche parte... Siamo nel 1932. Da lì a poco la guerra li trascinerà nelle stesse tenebre, tutti e ognuno. |
Il Giorno (7/3/2002) Silvio Danese |
La Nashville della società di caste britannica, negli anni 30. Altman al cuore dell'ibrido nascituro, il Novecento, con un film-girotondo in cui, per arrivare a ricostruire una storia, si passa dal labirinto di una trentina di personaggi "suonati" in una jazz-band dramamturgica senza un a-solo di spicco. Divisi tra servitù e nobiltà, popolano la dimora di Sir William McCordie nella campagna inglese dei primi anni '30, in un'atmosfera graffiata sulla tipologia dei film di James Ivory, ma eccitata e difforme, con la sottile ferocia di un affresco sulla promiscuità moderna delle classi: la servitù e i padroni, in un abilissimo su e giù dei piani, anche in senso architettonico (tra la cucina e i saloni), che ti fa sentire l'ingranaggio della vitalità dei ruoli mischiata alla subdola meschinità di rispettive ipocrise, tra le quali, però, le più interessanti e umanamente illuminanti sono quelle dei poveri. L'omicidio arriva tra il tè e la battuta di caccia. Una certa meccanicità finisce per assimilare brandelli di fiction tv. Tra "La regola del gioco" di Renoir e il serial "Upstairs, Downstairs". Da vedere. |