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( Raye makhfi- 2001)
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(Saccheggiata da www.kataweb.it)
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Premio speciale alla regia alla 58Mostra internazionale del Cinema |
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Un soldato di stanza su una spiaggia deserta si sveglia e scopre che non sarà una giornata qualsiasi: ci sono le elezioni, ma nessuno sembra saperne nulla. Mentre un'urna elettorale viene paracadutata dal cielo, sulla spiaggia sbarca una giovane donna. Per lo sconcerto del soldato, si tratta del funzionario responsabile del seggio mobile e delle votazioni sull'isola; il ragazzo è dunque obbligato a obbedire ai suoi ordini e a scortarla con fucile e jeep militare attraverso il deserto, dove con ostinazione la donna intende raccogliere i suffragi. Nel corso della giornata, scandita da una serie di situazioni assurde, i due imparano a conoscersi; e al tramonto, quando la giovane riparte, il ragazzo si accorge che quel voto segreto conteneva molto più di quello che aveva immaginato…
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Regia e sceneggiatura | Babak Payami |
Direttore della fotografia | Farzad Jadat |
Scenografia | Mandana Masoudi |
Costumi | Faride Harajl |
Montaggio | Babak Karimi |
Musica | Mike Galasso |
Produzione | Payam Films, Fabrica Cinema, Sharmshir, Rai Cinema, TSI |
Distribuzione | Istituto Luce |
Origine | Iran Italia Canada Svizzera |
Gli interpreti
Nassim Abdi .... Girl
Cyrus Abidi .... Soldier
Youssef Habashi
Farrokh Shojaii
Gholbahar Janghali
… Raye Makhfi non è un film sul sistema elettorale iraniano, né tanto meno su quello di qualunque altro paese. Raye Makhfi non vuole essere realista, è piuttosto una commedia dell'assurdo che descrive le elezioni nella realtà contemporanea. L'assurdo è presente sin dalla prima scena in cui un'urna piomba dal cielo. Vorrei chiarire al mio pubblico che si tratta della rappresentazione surreale e satirica di un tema sociopolitico. […] |
Il film si interroga sulla democrazia e sulla sua attuabilità in una società diversa dalla nostra. Il giudizio non è sicuramente positivo: in primo luogo lo strumento democratico (l?urna) arriva dal cielo come qualcosa di estraneo che si impone dall?alto in una realtà con cui ha ben poco da spartire.
Tale impressione percorre tutto il film: il diritto di voto è qualcosa che non interessa alla popolazione la quale o non si preoccupa minimamente di usufruire di una tale possibilità o, addirittura, cerca di ricavare da essa un utile (il venditore di plastica che fa comprare una bambola per mostrare dei documenti che, per di più, non servono).
Questa sentenza è anche espressa in due immagini: il semaforo messo in mezzo al deserto simbolizza una legge inutile e inutilizzata (il fatto che sia perennemente rosso non è un caso), la centrale termoeletrrica in decadenza rappresenta anch?essa un decreto che non ha nulla a che fare con la realtà in cui è inserito e infatti non viene usata per ciò per cui è stata costruita ma, provocatoriamente, per fare il tè.
Il film quindi testimonia una situazione di disagio oggettivo che è però espressione di un malessere più diffuso: il fatto che il regista sia irakeno non obbliga a ambientare la vicenda solo in tale paese e l?oggetto (la democrazia) è un simbolo di un progresso problematico.
In ultima analisi il film sembra condannare l?atteggiamento accomodatore con cui le istituzioni possono sentirsi la coscienza a posto solo perché hanno permesso alla popolazione di votare, quasi a dire "se una persona a fame non dargli un pesce ma insegnale a pescare".
La Stampa (2/11/2001) Lietta Tornabuoni |
Un altro buon film testimonia del periodo di felicità creativa vissuto adesso dal cinema dell’Iran, della sua rara capacità di conciliare il realismo quotidiano con uno stile alto di gran sapienza estetica. Il regista Payami, 35 anni, nato a Teheran, è cresciuto in Canada prima di tornare a lavorare nel suo Paese; il film è finanziato soprattutto dagli italiani di Fabrica Cinema (Marco Muller) e di Rai Cinema, dagli svizzeri della tv in lingua italiana e della Fondazione Montecinemaverità. Ma la presenza straniera non sembra avere influenza sul film prettamente iraniano, salvo forse per una doppia faccia che la storia presenta. L’autore la definisce «una commedia dell’assurdo», «una rappresentazione surreale e satirica di un tema sociopolitico», in realtà è una vicenda fortemente politica che può essere considerata in due modi: come un omaggio ai combattenti per la democrazia e per un nuovo Iran, oppure come una critica ai riformisti del presidente Katami che si agitano invano in un Paese che non si muove, immobilizzato dalla tradizione, dalla religione, dall’ignoranza, dai conflitti tribali. Nell’isola di Kish sul Golfo Persico, nel paesaggio arido dal mare meraviglioso filmato pure da Kiarostami e da Makhmalbaf, nel giorno delle elezioni piomba dal cielo, paracadutata da un aereo, l’urna elettorale, e arriva alla spiaggia con una barca a motore il responsabile del seggio mobile, che con una sua urna di polistirolo dovrà raccogliere i voti degli elettori dispersi nella zona. Il responsabile è una responsabile, una giovane donna energica e colta che porta i segni della condizione femminile in Iran: abiti lunghi, larghi, informi, scuri, e la testa coperta. Scortata da un soldato, la giovane donna va in giro alla ricerca dei votanti, e i suoi incontri raccontano quella parte dell’Iran: donne che non vogliono o non possono votare senza il permesso dei mariti assenti; elettori diffidenti, sfiduciati o portati a contrattare il voto; votanti Sunniti ai quali il voto è vietato dalla religione (ma forse non intendono votare per gli Sciiti che li perseguitano); contrabbandieri raggiunti per il voto in alto mare; votanti che non vogliono dare il loro suffragio ai candidati della lista bloccata ufficiale. La giovane donna, con tenacia, bravura e coraggio, insiste, spiega, chiarisce, illustra le regole d’una democrazia alquanto mutilata. Alla fine della giornata se ne va, sull’aereo che è venuto a prenderla: tornerà magari tra quattro anni, alle prossime elezioni. |
Corriere della Sera (3/11/2001) Tullio Kezich |
A conferma che da qualche anno gli iraniani stanno facendo il cinema più significativo del mondo, Il voto è segreto di Babak Payami ha ottenuto a Venezia il Leone d’argento. Per me avrebbero dovuto dargli addirittura il Leone d’oro, ma non tutti sono d’accordo. Soprattutto i francesi dell’ala cinefila: giudizio riduttivo su Le Monde , preoccupazioni per le sorti del cinema iraniano sui Cahiers du Cinéma. In realtà Teheran conferma che le dittature moderate (vedi il fascismo degli anni della guerra) stimolano l’ispirazione. Sulle prime Payami sembra temporeggiare, noiosamente indugiando sulla noia di due sentinelle all’erta (si fa per dire) su una spiaggia solitaria dell’isola Kish. Però abbiamo visto calare, appesa a un paracadute, una misteriosa cassa che risulta contenere l’urna elettorale; e a gestire questo «seggio mobile» arriva dal mare una giovane donna. Infatti è giorno di elezioni e la ragazza, accompagnata dal più ingrugnato dei due soldati, intraprende in jeep il giro dell’isoletta per raccogliere i voti. Dopo una partenza frenata alla Anghelopulos, ci ritroviamo dentro una vispa commedia che sembra in qualche modo memore di Travolti da un insolito destino di Lina Wertmüller. Ovvero un duetto tra una maschio e una femmina in perpetuo contrasto eppure destinati alla fine a intendersi. E anche qualcosa di più. Pochi hanno dato importanza al fatto che Il voto è segreto , a differenza dei pur bellissimi film iraniani che l’hanno preceduto, porta una nota nuova di tipo quasi umoristico, induce al sorriso e suscita simpatia. E questo ci arriva dal tetro Paese in cui l’ala integralista sottopone ancora le femmine al velo e alla sottomissione totale al maschio. Qui c’è una ragazza che, pur imbranata e spesso ingenua, si muove meglio dell’uomo ed è in grado di dargli una lezione. Vi pare poco? |
Film TV (6/11/2001) Goffredo Fofi |
"Raye Makhfi" (Il volo è segreto) conferma la regola secondo cui i film belli sono solo opere prime o seconde, e quelli dei vecchi sono proprio tanto vecchi. Ne può conseguire anche che i giovani invecchiano subito, ma su Babak Payami siamo pronti a scommettere perché, oltre che un vero regista, ci sembra un egregio "pensatore". Cos'è infatti il suo film, coi liberi modi di un'opera aperta e sulla base di un delicato racconto sul rapporto tra due persone diverse tra loro nel giro intenso degli incontri di una giornata, se non un trattatello politico-filosofico su un tema fondamentale? Il tema è il rapporto tra "arretratezza" e "modernità", tra un modello di potere e stato tradizionale (oppressivo, militare) e la democrazia (un'invenzione occidentale: cosa può diventare in quei contesti)? L'importanza della riflessione di Payami, o diciamo meglio della sua "ottica" (e oltretutto Payami è un regista che conosce perfettamente il valore delle immagini) risiede nell'originalità del punto di vista, che è decisamente non occidentale e non illuminista, che è diverso dalle riflessioni sull'argomento dei nostri classici. Su un'isola un militare deve accompagnare una ragazza in vesti tradizionali e con urna appresso, che deve convincere a votare gli sparsi isolani. E' arrivata la democrazia, ma le libere elezioni obbligano a scegliere tra dieci candidali stabiliti altrove. La varietà delle situazioni segue con autonomia le suggestioni dei grandi scrittori che fanno scivolare il realistico nel fantastico, e il film non é una parabola, non è un pamphlet, non è un trattato, é un vero racconto aperto che rimanda (con leggerezza) a uno dei maggiori dilemmi del nostro tempo. Ed è un modo nuovo di essere del cinema iraniano: né miniature né "pezzi di vita vera". |
la Repubblica (28/10/2001) Roberto Nepoti |
C'è un precedente poco noto a Il voto è segreto, vincitore del premio per la migliore regia all'ultima Mostra di Venezia. Si tratta di un film collettivo presentato anch'esso al Lido, ma l'anno scorso, e intitolato «Tales of a Island». Nell'episodio che porta la firma di Mohsen Makhmalbaf si racconta, in forma poetica, la sesta elezione del parlamento iraniano e la vittoria del presidente Kathami. Decisi a girare un film sull'evento elettorale due registi fanno incontri picareschi: il più emblematico è quello con la figura allegorica della democrazia, rappresentata da una ragazza col chador che nuota nel mare agitato tenendo tra le mani un'urna elettorale. Lo stesso clima si respira nel film dell'iraniano Babak Payami, coproduzione a molti partner (tra cui la nostra Fabrica) sospesa tra il realismo minuzioso e la metafora surreale, il didascalismo e la fiaba, dove la vena allegorica giunge a evocare, in un paio di scene, il cinema di Fellini. È giornata di elezioni e, su una spiaggia deserta presidiata da due militari, giungono prima un'urna paracadutata, poi una responsabile elettorale scaricata da una barchetta. Con la scorta di un soldato, assai scettico, l'«urna mobile» parte in jeep per i villaggi dell'entroterra; ma gli schivi abitanti non hanno nessuna voglia di votare. Chi non sa scrivere; chi tenta brogli; chi non conosce i candidati; chi vuol dare il suffragio all'unico che lo meriti, Dio. Sotto l'aspetto della commedia surreale, la metafora è amara: malgrado lo zelo della giovane funzionaria, il sistema elettorale sembra ben poco consono alla cultura arcaica del Paese. |
l'Unità (1/11/2001) Dario Zonta |
Uno dei film più interessanti passati nella selezione ufficiale dell'ultimo Festival di Venezia, premiato con un Leone per la miglior regia, è Il voto segreto del regista iraniano Babak Payami, coprodotto da Fabrica grazie all'intervento, sempre attento e preciso, di Marco Muller. L'interesse in questo caso, è duplice e riguarda il film, per la messa in scena e la chiave di lettura scelta, in relazione alle pratiche attualmente in voga nel cinema iraniano (Kiarostami, Mackmalbaf), e la particolare storia raccontata che illumina indirettamente e retrospettivamente parte della vicenda che ha definito l'attuale società iraniana. Una coincidenza aiuta a leggere in filigrana il film di Payami. Per una volta cinema e letteratura contribuiscono alla formazione di una esperienza realmente edificante, veramente educativa. Vedere Il voto è segreto avendo in mente le parole con cui lo scrittore Ryszard Kapuscinski descrive, nel libro da poco tradotto in italiano Shah-in Shah, un momento importante nella società iraniana, quella dell'ascesa e della caduta della monarchia dello scià Reza Pahlavi a seguito della rivoluzione Khomeinista del '79, vuol dire cogliere, con un minimo di consapevolezza in più, le molte sfaccettature e le mille differenze che abitano un Paese così complesso e così martoriato dalla storia come l'Iran. In questo senso il libro e il film si completano a vicenda. Il primo fa luce sul recente passato dell'Iran, quello che ha visto l'assurda gestione dell'enorme ricchezza petrolifera dei giacimenti persiani, governata dalle manie di grandezza del tirannico scià Pahlavi, sotto l'ingerenza della longa manu americana, che ha disegnato la Grande Civiltà con quella manciata di decreti noti con il nome di Rivoluzione Bianca, grazie alla quale in pochi anni sono state erette cattedrali che ora giacciono sepolte nel deserto e che hanno arricchito l'entourage dello scià a scapito della popolazione rimasta nella più assoluta povertà sotto la pressione psicologica degli agenti della Savak. Il secondo osservando con caustica ironia, in una commedia dell'assurdo, il presente dell'Iran colto nel momento democratico, quello delle elezioni. Sembra di assistere una commedia beckettiana ambientata su di un'isola del Golfo Persico a poche miglia dalla costa meridionale dell'Iran. Qui, dal cielo, piove, sulla testa di un soldato a guardia di un avamposto desertico in faccia al mare, paracadutata da un aereo, un'urna elettorale, accompagnata a breve distanza dallo sbarco di una flotta di giovani donne, addette governative incaricate di aiutare i cittadini nella corretta espressione di voto. Una di queste, zelante e tutta presa dall'ideologia democratica del libero esercizio di voto, raggiunge l'avamposto militare e con l'aiuto del soldato, incredulo e scettico, compie un viaggio nell'isola tra villaggi semiabbandonati, piccole comunità raccolte intorno a una capo-padrone ed ex centrali elettriche da tempo dismesse, dal tempo, appunto, della rivoluzione khomeinista. Payami apre così una finestra non solo sulla società iraniana, sul suo stato di povertà e arretratezza, ma anche sulle diverse reazioni di un popolo chiamato a realizzare, tra scetticismo e analfabetismo, dopo decenni di dittatura prima e altri di rigida osservanza dei dettami della repubblica islamica khomeinista, una propria idea di democrazia e lo fa attraverso una chiave di lettura che sposa l'assurdo con la commedia on the road, richiamando nella struttura e nel rapporto dei due protagonisti buona parte della tradizione cinematografica americana. Il finale vede un jumbo della compagnia di bandiera atterrare sull'isola per raccogliere l'urna e il funzionario governativo. Pungente metafora sull'idea di un progresso senza mezzi che tenta di avanzare tra le dune del deserto. |
Sole 24 Ore (25/11/2001) Roberto Escobar |
Nel blu profondo della notte, un aereo lascia cadere un oggetto ancora più esplosivo d'una bomba: una cassa con i documenti che, l'indomani, renderanno possibile il voto agli abitanti dell'isoletta di Kish. Così inizia Il voto é segreto (Raye makhfi, Iran, Italia, Svizzera e Canada, 2001, 100'), piccolo film, tenero e luminoso che viene, una volta di più, dal cinema iraniano, ma che sa parlare una lingua transnazionale. C'è chi s'industria come può per provincializzare la storia raccontata da Babak Payami, e per ridurla a un qualche documento sulla difficile democrazia dell'Iran e sulla condizione femminile in quel Paese lontano. Ma c'è anche chi, nella luce netta e tersa del Golfo Persico, riconosce idee, passioni e comportamenti stranamente familiari. A 20 miglia dalla costa iraniana, dunque, Payami mette in scena un'apologia della democrazia, del voto libero e uguale di tutti e d'ognuno. Ma non lo fa magnificandone i vantaggi, celebrandone gli effetti. Al contrario, ne mostra la fragilità, mettendola a confronto con ben diverse prospettive, e con la loro ben più spiccata saldezza. Dopo il prologo, la prima, lunga inquadratura di Il voto è segreto è tenuta tutta dentro un microcosmo: una spiaggia, un brandello di mare azzurro, una branda su cui, a turno e a cielo aperto, dormono due soldati. E' stato loro annunciato l'arrivo del funzionario che gestirà il seggio elettorale, e ora sono in attesa. La staticità dell'inquadratura sottolinea questo ruolo del tutto passivo. Hanno ricevuto un ordine, e gli si adeguano. Che si tratti di fermare i contrabbandieri, come per lo più fanno nel ripetersi uguale di ore e di gesti, o che si tratti di garantire il voto, per loro tutto si riduce a obbedienza. Hanno una funzione, i due, meglio ancora sono una funzione, una piccola cosa dentro una grande macchina. Niente ai loro occhi può eccederne le misure. Le loro vite consistono nell'adesione e nella coerenza a un ordine, tanto nel senso particolare di comando, quanto nel senso generale di "forma e valore del mondo". Nessuna curiosità li smuove, nessuna domanda mette a rischio la loro tranquilla passività. Se per caso trovassero - come nel film accade - un semaforo rosso in mezzo al deserto, non esiterebbero a rispettarne l'"ordine", per quanto ridicolo. Ma, appunto, la cassa caduta dal cielo lo mette in movimento, quel loro mondo che pareva già tutto dato. E lo fa con l'entusiasmo indifeso d'una giovane donna (Nasim Abdi). Niente in lei suggerisce passività, nessun ordine la induce a coerenza e adesione. Sul suo volto e nei suoi gesti ci sono la dinamicità interiore e la generosità di chi voglia sfuggire al rischio di ridurre i singoli uomini e le singole donne a piccole, passive "funzioni". È questa sua libertà singolare che, subito, mette in allarme il soldato (Cyrus Abidi) cui tocca d'accompagnarla per l'isola, alla ricerca degli elettori. Abituato a un mondo formato e retto da un potere esterno e impersonale, quello non concepisce che, nel rito che fonda la democrazia, la legittimità nasca non dalla forza, non dal fucile che sempre porta con sé, ma dalla fragilità d'una scheda elettorale (fragilità che gli pare evidente già solo per il fatto che, a garantire il voto, sia chiamata una donna). Ai suoi occhi è innaturale, questa legittimità che non uccide e non taglia teste, ma le conta. Ed essa è innaturale anche per la maggior parte degli elettori. Tra loro c'è chi intende le elezioni come un'occasione per gestire obbedienze (magari portando gruppi di donne al seggio e pretendendo di controllarne il voto). C'è poi chi, sicuro, ne nega l'utilità per sé e per i suoi, in vista di interessi che - così sostiene - sono ben più vivi e concreti. E c'è infine chi le considera non più che un'opportunità di scambio, un mercato in cui l'utile determina le scelte. Come si vede, niente di nuovo sotto il sole, a qualunque latitudine e longitudine gli capiti di splendere. Dove sarà mai, allora, l'apologia della democrazia? Si direbbe che, al contrario, Payami ne sveli la debolezza, l'incapacità di prevalere sia sulla volontà d'obbedienza sia sulla potenza degli interessi. Eppure, alla fine della giornata e del film, poco prima che la giovane donna voli via a bordo d'un aereo che, quasi per magia, si materializza sull’isola, è il soldato a formularla, quell'apologia davvero esplosiva. Conquistato dal coraggio di lei, ora preferisce al suo fucile il "gioco" fragile e innaturale del voto. Perché le elezioni non si fanno due volte all'anno?, le domanda infatti. Poi, torna alla sua funzione, ai gesti e alle ore sempre uguali: ma ora, certo, con il sospetto che l'obbedienza non sia sempre una virtù. |
Il Giorno (2/11/2001) Silvio Danese |
La democrazia di Kamenei (anche se non c'è alcun riferimento diretto all'Iran) alla prova del voto nelle periferia della nazione. Una dirigente dell'ufficio elettorale, accompagnata da un soldato che non accetta il ruolo istituzionale di una donna, visita capanne, oasi, postazioni industriali e barchette-abitazioni sulla costa con un'urna di cartone e il timbro della stato nel giorno del voto politico. Un viaggio assurdo, a tratti comico, nell'ostinazione della democrazia. Un itinerario piombato dalla canicola e dallo svantaggio geografico, tra la luce ocra e la polvere di spazi immensi. Le 'fellinate' riconoscibili (l'urna paracadutata da un aereo, il semaforo nel deserto) sono motivate, a volte efficaci, perfino fuori dal manierismo del cinema iraniano. Tra l'auto in panne e la refrattarietà degli elettori, la fatica del voto diventa una sorta di reclutamento che rivela il vuoto di comunicazione tra Stato e cittadini. Tra tutte, la sentenza del vecchio guardiano della centralina solare: "Non conosco nessuno nella lista. L'unico che conosco qui è Dio. Quindi voto per lui". Il regista Payami ha studiato a Toronto. L'italiana Fabrica coproduce. Doveva vincere un premio all'ultima Mostra del cinema di Venezia. |
Alberto
Farassino
Marchiato, peggio di un pilota di
formula uno, da una incredibile serie di sigle e “loghi” di coproduttori,
cofinanziatori e sponsorizzatori (Fabrica di Benetton, Tv della Svizzera
italiana, Celluloid Dreams, Montecinemaverità di Locarno e Fondo Hubert Bals di
Rotterdam, Raicinema e Istituto Luce che dovrebbe assicurarne la distribuzione
in Italia) Raye Makhfi di Babak Payami ben simboleggia l’attuale
sopravvalutazione e stato di sovreccitazione del cinema iraniano. E sembra che
un cineasta di quel paese che abbia un soggetto con qualche spunto sociale, con
qualche trovata ironica, e magari con un’auto che vaga nel deserto come nei
film di Kiarostami (anche i bambini, naturalmente, vanno sempre molto) si trovi
spianata la strada delle produzioni e dei festival europei ben al di là dei
suoi reali meriti. E’ appunto il caso di questo film che affronta uno di quei
temi di cui tutti in Europa si sono sempre altamente disinteressati ma che in
questa occasione possono scoprire e dibattere con grande impegno come se fosse
sempre stato al cuore del nostre preoccupazioni, le modalità con cui si
svolgono le elezioni in Iran. E’ vero che il regista avvisa subito che il suo
non è un film sul sistema elettorale del suo paese, ma piuttosto una favola
surreale, una commedia dell’assurdo, ma tutti hanno ragione di credere che si
tratti di dichiarazioni prudenziali da accettare solo fino a un certo punto.
Vediamo dunque, in uno sperduto e probabilmente inutile posto di sorveglianza
militare fra mare e deserto, arrivare dal cielo con paracadute prima una cassa
contenente un’urna elettorale e poi, dal mare, una funzionaria statale
incaricata di presiedere un seggio mobile che consentirà ai cittadini della
zona - pescatori, nomadi, abitanti di villaggi e fattorie isolate - di
esercitare il loro diritto elettorale. La donna si mette dunque in viaggio su un
fuoristrada accompagnata da un milite, sospettoso perché il funzionario è una
funzionaria, e comincia ad accostare i potenziali elettori. Ma questi o stanno
pescando e non hanno voglia di smettere, o non conoscono i candidati, o non
capiscono il farsi, o sono diffidenti e credono solo in Allah, o trovano altre
scuse per temporeggiare così che lo scatolone viaggia quasi inutilmente per
tutto il giorno e alla fine ritornerà alla base quasi vuoto. Naturalmente ogni
incontro con potenziali elettori e ogni situazione dovrebbe essere buffa,
ridicola, esemplarmente assurda ma ciò avviene assai raramente anche perché,
come i surrealisti hanno insegnato, l’assurdo per essere efficace deve
accompagnarsi al massimo di verosimiglianza e qui invece tutto è poco o nulla
credibile per la sciatteria della regia, la noncuranza per la recitazione e la
messa in scena, l’incapacità di raccontare i tempi e di disegnare lo spazio e
il paesaggio. Così che anche le idee migliori e divertenti, come un finale
davvero surreale e “zavattiniano”, si spengono in mezzo ai molti
velleitarismi e il film finisce per farsi giudicare solo sul piano politico. Sul
quale, forse anche contro le sue intenzioni, esprime un’idea pericolosa e
oggettivamente reazionaria: che gran parte del popolo iraniano non è preparato
alla democrazia rappresentativa, e che dunque è meglio lasciar fare tutto, come
sempre, ai mullah e ai capivillaggio. Bel risultato, per tutta
quell’intellighenzia produttiva europea che lo ha così entusiasticamente
sponsorizzato
Alessandro de Simoni http://www.35mm.it
Kiarostami, Panahi, Makhmalbaf e famiglia, e tanti altri ne potremmo citare di cineasti iraniani che negli ultimi anni hanno fatto incetta di premi in tutti i piu importanti festival del mondo. Ma cos?e che rende questa cinematografia cosi amata dalle giurie? Tanto per cominciare, i temi trattati sono di grande impatto e inducono a giudicare i film per motivi che esulano da meriti artistici. Ma, per quanto meritevoli siano i propositi di denuncia e informazione fuori dai confini persiani, troppo spesso si son privilegiate opere di provenienti da questo Oriente a scapito di lavori artisticamente piu degni di segnalazione. Senza nulla voler togliere al lavoro di Babak Payami, Il voto e segreto non si discosta dal cinema classico iraniano, anche se non ci sono bambini, ma la protagonista e una donna, la cui condizione e da un paio d?anni sviscerata in tutte le salse, e soprattutto si puo fregiare di un?ironia vista a tratti nel cinema di Kiarostami. Nel complesso Il voto e segreto e un film gia visto che si ispira a piene a mani alle opere e allo stile dei maestri, risultando affatto originale e con poco da aggiungere rispetto a quanto si sia detto, cinematograficamente, sino ad ora. Resta forte un dubbio: non sara solo moda?