BILLY ELLIOT

 

La Stampa (20/2/2001)
Lietta Tornabuoni

La danza invade i film, in se stessa o come veicolo di storie, come elemento per la costruzione dell’identità, come presenza simbolica, e usa ogni stile, ogni epoca: prima e dopo l’ammirato e premiato «Billy Elliot» di Stephen Daldry, si son visti «Dancer in the Dark» di Lars von Trier, «Le roi danse» di Gérard Corbiau (il re che balla è Luigi XIV), «Beau travail» di Claire Denis, «Bamboozled» di Spike Lee. «Billy Elliot», vicenda d’un bambino di famiglia proletaria che nel 1984 a Durham, nell’Inghilterra settentrionale, durante il lungo, terribile e vano sciopero anti-Thatcher dei minatori, vuole assolutamente diventare ballerino di danza moderna, ha un lieto fine. Il bambino riesce a venir ammesso alla scuola di danza del Royal Ballet a Londra, termina bene i corsi, arriva a partecipare al suo primo spettacolo al Covent Garden. Tra il pubblico, suo padre minatore (anzi, ex minatore, perché la Thatcher ha chiuso le miniere), che all’inizio lo aveva duramente contrastato («roba da femminucce, da finocchi») e che è poi divenuto il suo maggiore sostenitore, piange di commozione come in una cinesceneggiata di Mario Merola. Sul palcoscenico, il ballerino ormai adulto, tutto coperto di piccole piume, danza «Il lago dei cigni» nella versione di Matthew Bourne, interpretata da tutti uomini, andata in scena a Londra e poi a Broadway nel 1996. Alcuni hanno creduto che il film fosse ispirato appunto alla vita di Bourne, nato in una famiglia operaia a Manchester: ma pare che i genitori del coreografo non si siano mai opposti alla sua scelta. Comunque, la vittima ostacolata e osteggiata ce la fa, diventa un vincitore: la conclusione consolatoria illumina il film che ha cose belle e meno belle. E’ bella l’interpretazione, ricca d’energia, di naturalezza e di emozione, del bambino Jamie Bell. E’ bella la narrazione dello sciopero dei minatori, tra le fatiche della lotta, il disperare delle possibilità di vittoria, le tentazioni di cedere, e gli scontri violenti con la polizia che compongono le coreografie forse più suggestive e forti del film. E’ bella la descrizione della vita povera d’una famiglia composta, dopo la morte della moglie-madre, da un bambino, due uomini e una nonna un po’ svanita: le luci pomeridiane tristi nelle casette a schiera di mattoni rossi, l’angustia, il cibo cattivo, i cortili solitari, le ansie senza fine. E’ ben narrato il contrasto fra questa durezza esistenziale e l’aspirazione alla bellezza, alla lievità, all’aereo lirismo rappresentata dalla danza che per il bambino sembra anche un mezzo per liberarsi del proprio destino sociale: come già accadeva in «Flashdance» (1983, giovane operaia sogna di fare un provino per l’Accademia di danza e ci riesce), o come succede adesso in «Girlfight» dove l’ambizione d’una ragazza è più brutale, diventare pugile. Lo stile del regista debuttante che viene dal teatro è invece scolastico, illustrativo, televisivo (il film è prodotto anche dalla BBC). Riveste il melodramma di immagini accademiche. Presenta il caso (figlio e fratello di minatori che vuol fare il ballerino) come eccezionale, mentre sono consueti i ballerini di danza moderna d’origini popolane: basta pensare a John Travolta o al primo Celentano. Il film sostiene infine con una foga del tutto fuori luogo e poco simpatica che non tutti i ballerini sono gay, s’affanna a dimostrare che il piccolo protagonista non è gay (anche attribuendogli modi villanzoni e mettendogli accanto un amichetto gay che si traveste da donna): come se l’eventuale contrario fosse reato o peccato, come se dovesse interessare a qualcuno. Ma il fascino della danza mescolato a un’iconografia proletaria già obsoleta e nostalgica, la forza dei protagonisti, il conforto della vittoria finale fanno la seduzione e il successo di «Billy Elliot».



Corriere della Sera (24/2/2001)
Tullio Kezich

Ballando ballando la classe operaia va in palcoscenico con il ragazzo «Billy E lliott» che per un caso fortuito, quando l’allenatore di pugilato cede mezza palestra alla maestra di danza, diventa un «étoile». Siamo nel nord dell’Inghilterra nel 1984, al tempo dei grandi scioperi minerari, e figuriamoci con quale sconcerto il padre proletario (un bravissimo Gary Lewis) vede il figlio minore appendere i guantoni al chiodo per rivolgersi a un’attività considerata poco virile. Intrecciata alle fasi a volte drammatiche dello sciopero, la vicenda è intrisa di notevole pessimismo a livello sociale: nell’attuale fase della civiltà occidentale non c’è speranza di riscatto per le masse, chi vuol tirarsi fuori dalla vita agra deve farcela da solo; e magari sulle punte. È implicito un sottinteso sessuale: appare chiaro che di Billy i familiari finiranno per accettare anche la vocazione gay. D’altra parte quel cimitero con vista sulle miniere (e viceversa) è abbastanza eloquente; e la presenza ossessiva della polizia ci ricorda di continuo che non siamo nel regno delle favole. Avvalendosi dell’interpretazione di un ragazzo, Jamie Bell, che sembra già un attore espertissimo, «Billy Elliott» sta ottenendo un successo mondiale confermato da tre nomination agli Oscar: per l’autore del copione Lee Hall, il regista Stephen Daldry e la «supporting actress» Julie Walters, burbera benefica. Fondendo la sua carica eversiva a una disponibilità alla commedia il film, pur con qualche scivolone dolciastro (l’inutile apparizione del fantasma della madre scomparsa, il fratello odioso che diventa troppo buono) è articolato su un montaggio sorprendente, che gioca d’anticipo con un senso ben definito del cinema moderno.



Film TV (27/2/2001)
Emanuela Martini

C'è uno miniera in sciopero in una città dell’Inghilterra del Nord del 1984 (gli anni del thatcherismo più duro). C'è lo scorcio in solito di una strada che si butta direttamente nel mare. Ci sono tutte le cose allineate che abbiamo imparato a riconoscere fin dalla fine Anni '50 con il free cinema e i dintorni. E i minatori sull'orlo della disperazione, i poliziotti allineati con gli scudi, i padri e i fratelli maggiori ruvidi, attaccati alla boxe, ai picchetti, alla birra. E poi c'è un ragazzino di undici anni che ai guantoni da pugile (tramandati da suo nonno a suo padre e a lui) preferisce le scarpette con le punte rinforzate da ballerino classico. «Ma non vuol dire essere finocchio!», esclama Billy davanti allo stupore adirato del padre e del fratello maggiore. Vuol dire solo uno passione e un talento, vuol dire uscire (con uno metafora visivo un po' troppo esplicita) dalla prigione di mattoni e carbone che la vita ha predisposto dalla sua nascita. Figlio di minatori, Billy invece vuol fare il ballerino, il cigno bianco del lago (che apparirà nella scena finale, nel famoso allestimento londinese di tre anni fa, danzato da soli uomini). Un po' di Loach e, soprattutto, tanto Mark Herman di "Grazie, signora Thatcher!", dove al posto del balletto e del futuro di un ragazzino («Diamo almeno a Billy una possibilità», dice il padre quando si convince) erano in gioco la passione per la musica e l'onore della banda dei minatori: lo sceneggiatore Lee Hall (che ha seminato nella storia pezzi della sua vita di adolescente a Newcastle) e il regista Stephen Daldry non nascondono i loro rimandi, anche se li lavorano dalla prospettiva dell'adolescenza e del sogno della danza. I balletti improvvisati da Billy (soprattutto quello centrale, tra i muri, sul tetto, per strada) entrano con piglio antirealistico. La retorica dei sentimenti e delle riconciliazioni è tenuta sotto stretto controllo, tanto stretto, però, che rischia di riaffacciarsi e apparire più ingombrante (mentre nel film di Herman era trionfalmente, popolarmente esibita, e perciò "giusta"). Ma la miscela funziona, il ritmo non si allenta, gli attori (in testa la grande Julie Walters maestra di danza) sono perfetti. E poi, chi non ha mai ballato da solo per sfogarsi?



la Repubblica (24/2/2001)
Roberto Nepoti

Presentata l’anno scorso alla Quinzaine di Cannes, dove fu accolta con enorme favore dal pubblico, l’opera prima del produttore e regista teatrale Stephen Daldry è diventata uno dei «casi» cinematografici della stagione, ottenendo un ottimo piazzamento al boxoffice internazionale e due nomination (migliore regia e migliore attrice non protagonista: Julie Walters) agli Oscar prossimi venturi. Durante il grande sciopero dei minatori nell’84 (lo stesso di «Grazie, signora Thatcher»), nel Nordest dell’Inghilterra, un ragazzino di undici anni si scopre la passione per la danza. Il padre, vedovo inconsolabile, e il fratello maggiore preferirebbero vederlo impegnato nel virile sport della boxe; pensano che una carriera da étoile non sia solo irrealizzabile, ma anche l’anticamera dell’omosessualità. Billy tiene duro nel suo proposito, con l’incoraggiamento della signora Wilkinson (la Walters), un’insegnante disposta a sfidare i pregiudizi maschili mandandolo alle selezioni del Royal Ballet di Londra. Le difficoltà sono tante, ma alla fine l’entusiasmo del ragazzo contagia l’intero villaggio minerario: incluso babbo, che capisce come la danza sia la sola occasione di riscatto sociale per Billy e, vincendo i suoi stessi pregiudizi, lo aiuta. La morale della favola è molto simile a quella di «Grazie, signora Thatcher», ovvero l’arte e la solidarietà sono più forti della miseria. Però le analogie si fermano qui, perché Billy Elliot è un melodramma in piena regola, del tipo che vuole (e ci riesce) farti tirare fuori il fazzoletto. Nuovo esemplare di quel cinema britannico che — da «The Full Monty» a «East is East» — anche il pubblico italiano mostra di gradire particolarmente, Billy Elliot alterna commozione e humour, è scritto bene, politicamente supercorretto, accattivante: anche se lascia trapelare una dose di furbizia e, in filigrana, fa intravedere un programma mirante a suscitare emozioni garantite. Se la storia di Billy sfonda un po’ di porte aperte, tuttavia, lo fa con misura e tenerezza: vedi l’ingenua confessione d’amore del piccolo amico o il modo in cui la regia riesce a evitare il ridicolo su Billy, vestito da ballerina. Una buona dose del successo ecumenico del film va sicuramente attribuita al giovanissimo protagonista Jamie Bell: diretto, determinato, a volte egoista; mai, neppure per un momento, lezioso o disposto ad autocompatirsi.



Ciak (1/4/2001)
Stefano Lusardi

Come mai Cielo d'ottobre è stato un flop e Billy Elliot sta trionfando in tutto il mondo? Eppure i punti in comune fra i due film sono parecchi, dall'ambiente minerario al padre duro che poi s'intenerisce, dall'insegnante, sostituta madre, al talento, là si trattava di tecnica qui di danza, che salva dalla povertà. La ragione, probabilmente, è che il cinema inglese ha scoperto la formula del successo e, un po' come Hollywood, si è messo a costruire film "chimicamente". Certo restano tracce d'impegno alla Loach (i manganelli sugli operai in sciopero), ma tutto il resto è dosato col bilancino: le parentesi umoristiche (nonna rincoglionita), la scena madre (lettura della lettera), il momento catartico (papà che vede Billy ballare) e quello solidaristico (la raccolta dei soldi per il viaggio a Londra). Jamie Bell è indubbiamente molto bravo, tutto introversione, rabbia e fragilità. E Daldry ha tempi giusti e ritmo accattivante: molto abile, un po' troppo furbo.



Duel (28/2/2001)
Luisella Angiari

Billy Elliot parte da un assunto abbastanza simile a Grazie, signora Thatcher di Mark Herman e The Full Monty di Peter Cattaneo: l'Inghilterra è quella plumbea degli anni del governo Thatcher, che ha segnato le sconfitte più cocenti per la classe lavoratrice. La cittadina mineraria del nord dove Billy vive con il padre, il fratello e la nonna afflitta dall'Alzheimer, ha colori grigi e spenti, cieli lividi e abitanti incattiviti da uno sciopero che dura da troppi mesi e che li ha ridotti a una povertà tangibile. A casa di Billy i pochi soldi bastano appena per i generi di sussistenza e per le lezioni settimanali di pugilato, tradizione di famiglia a cui ci si aspetta che anche il ragazzino renderà onore. Ma la palestra dove Billy prende molti più pugni di quanti riesca a darne, condivide gli spazi con il corso di danza classica tenuto dalla signora Wilkinson. Uno sparuto gruppo di goffe anatroccole in tutù, che però si muovono seguendo un codice che parla direttamente al cuore di Billy. Quando Billy accetta la sfida di unirsi al gruppo di ragazze, forse sa già di aver compiuto una scelta fondamentale. Ovviamente, dimostra subito di avere un talento naturale. E la maestra, dalla lingua tagliente, la sigaretta a catena e il cuore d'oro, già lo vede sfuggire a un destino di mediocrità, sfolgorante su un palcoscenico. Ma prima occorre sfondare i pregiudizi di un padre e un fratello che considerano la danza una cosa "da ragazze e invertiti", superare l'ostacolo di ristrettezze economiche che costringono a distruggere il pianoforte della madre morta per farne legna da ardere, dimostrare che può accendersi il fuoco bruciante della passione anche in mezzo alla disperazione di chi si sente predestinato alla sconfitta. Billy Elliot poteva facilmente diventare una specie di Flashdance britannico, ma Daldry e Lee Hall, autore della sceneggiatura, sanno creare un abile equilibrio tra il crudo realismo quotidiano della vita dei minatori e i momenti di puro "musical", in cui il piccolo protagonista scatena le sue energie nella danza. Gran parte del merito va a un casting efficacissimo, con Gary Lewis - Orphans, My Name ls Joe - ruvido e affettuoso padre, Julie Walters disincantata insegnante di danza, Jamie Draven, il fratello di Billy, un palpabile concentrato di rabbia proletaria e lo stupefacente talento di Jamie Bell, scelto tra oltre duemila candidati, ottimo ballerino e misuratissimo attore, con un volto chiuso e angoloso che si apre, raramente, in un irresistibile sorriso. La danza di Billy è un piccolo atto eversivo che riesce a diventare occasione di riscatto per tutta la comunità. Billy può "farcela", può "diventare qualcuno", anche se il talento lo indirizza verso un campo poco conosciuto e guardato con sospetto. Come in Grazie, signora Thatcher e in The Full Monty, sembra che solo l'espressione artistica riesca a fornire una via d'uscita dalla crisi. Ma in Billy Elliot non é il gruppo a emergere: il caparbio Billy non cerca il riscatto per tutti, bensì l'affermazione personale, la possibilità di esprimersi come individuo. Il suo successo é un simbolo per il gruppo ma, soprattutto, é l'affermazione del diritto di essere se stessi. ll percorso di Billy è contrappunto da una scelta di canzoni che sottolineano ed enfatizzano i contenuti delle immagini. Lo scatenato numero per le strade è coreografato su A Town Called Malice dei Jam. Le canzoni dei T-Rex - Get It On, I Love to Boogie, Children of the Revolution - sono la colonna sonora privata di Billy, quella pubblica ha il ritmo di London Calling dei Clash, Shout to the Top e Walls Come Tumbling Down degli Style Council, brani che riecheggiano nei testi le situazioni a cui forniscono il contrappunto musicale.



Il Giorno (24/2/2001)
Silvio Danese

Sta a metà tra un romanzo di formazione-ribellione e l'apologia dell'occasione per ciascuno. Tra "I pugni in tasca" e "Saranno famosi". Quando il padre e il fratello affrontano gli scioperi delle miniere in un povero paesino dell'Inghilterra del nord, nel 1984, l'undicenne Billy scopre che il corpo si può esaltare nella danza e che la fatica della leggerezza è una conquista di libertà: dalla povertà, dal dolore, dall'emarginazione, dalla famiglia. Nonostante l'ottima interpretazione del giovanissimo debuttante Jamie Bell (doppiato da Fabrizio de Flaviis) e nonostante l'abile deviazione dalla sindrome dell'incompreso, non mancano i passi convenzionali del genere: la sequenza musical sulla rabbia del discepolo, scene madri di famiglia, lo scoglio dell'esame alla scuola del Royal Ballet, la suspense del risultato, la consacrazione finale con un colpo basso. La regia di Stephen Daldry è studiata fin troppo sul tempo della lacrima cavata dall'emozione, ma l'insegnante fredda di Julie Walters e l'allusione alla danza come intimità prima che corpo, sono centrate. Cinque nomination agli Oscar.