ORION MOVIES
CENTRO FRANCESCANO ARTISTICO ROSETUM
via Pisanello 1
20146 - MILANO
I
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Il termine transgender
non riguarda l'orientamento sessuale, ossia la meta del nostro interesse,
definito solitamente come eterosessuale, omosessuale, bisessuale ma anche
asessuale.
L'identità di genere
indica invece il genere in cui una persona si identifica, ovvero come vive
l'appartenenza al proprio sesso (maschile o femminile) e non deriva
necessariamente da quella biologica. Le persone transgender sono chiamate
transessuali se affrontano un percorso psichico e fisico medicalmente assistito
per passare alla transizione F to M oppure M to F.
Dal 19/06/2018 la
transessualità non è più classificata dall'Organizzazione Mondiale della Sanità
come malattia mentale (come già dagli anni Ottanta per l'omosessualità).
Il percorso per
modificare la propria identità sessuale in maniera legale passa
obbligatoriamente attraverso molteplici livelli: medici, legali e infine
giudiziari ma non è necessario l'intervento chirurgico.
Lo stigma sociale può
determinare un forte disagio psicologico denominato minority stress (stress
delle minoranze) che può condurre anche al suicidio.
Detto questo, il film mi
è piaciuto molto perché affronta in modo delicato un tema quanto mai attuale e
scottante, non esasperando mai la violenza che in vari modi viene espressa da
tutti i parenti del compagno.
Marina è certamente una
donna fantastica in quanto affronta con pacatezza e determinazione le reazioni
di disprezzo delle persone che la circondano, ben consapevole dello stigma a cui
i transgender sono sottoposti. Bellissima e simbolica l'immagine di lei nel
vento che, nonostante la perdita del compagno e tutte le difficoltà conseguenti,
resiste e riesce a stare non solo in piedi ma anche in equilibrio. Ricomprende
in sé e non nega nemmeno le sue componenti maschili quando prende a pugni il
pungiball per scaricare la tensione e salta sull'automobile per rivendicare i
propri diritti.
Coinvolgente l'aspetto
del respiro che si fa affannato nei momenti di maggiore
difficoltà.
E che dire del canto
dolcissimo finale? La musica come messaggio universale che racchiude in sé un
concetto di armonia e fa convivere pacificamente tutte le
differenze.
Mimosa
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Succede che un film ti
piaccia ma nello stesso tempo ti tenga lontano. È quello che è successo per
questo film, che mi ha sì affascinato ma con un po’ di difficoltà.
Marina mi ha ricordato
il mitico protagonista di The Rocky Horror Picture Show, Frank-N-Furter
che invece mi aveva oltre che affascinato anche molto divertito. I due film,
ovviamente, si pongono su piani diversi. Una donna fantastica si avvicina forse
di più a La moglie del soldato per il tipo di storia con però il minus di
far scoprire fin quasi dall’inizio la verità. C’è anche un po’ di Priscilla,
la regina del deserto ma solo in alcuni momenti.
Che dire? La
melodrammaticità cilena e gli “occhioni” della protagonista, spesso in primo
piano e con sguardi rivolti in macchina, ti fanno sentire compartecipe del suo
dramma, quello di una donna imprigionata in un corpo maschile, per di più in una
società ostile.
Bel film. Sicuramente me
lo ricorderò.
Silente
Un film di alto valore morale ed educativo che si
rivolge a tutti noi. Ambientato in una zona caldissima del mondo, come Carolina
ha ben delineato nel suo quadro geo-politico (per cui ringrazio), prende spunto
dalla drammatica questione palestinese per poi separarsene e riguardare i
conflitti e le ferite di tutto il mondo. È incredibile come spesso le tragedie a
volte nascano da motivi banali. Dai piccoli litigi giornalieri ai grandi
conflitti internazionali, quello che il regista descrive ci riguarda tutti, in
ogni momento e ciò che non fa degenerare nella tragedia è la capacità dei più di
controllare le proprie emozioni e di far prevalere la razionalità. Non accade
così quando la sfera della consapevolezza di sé e la dimestichezza con le
proprie emozioni sono affievolite. E proprio di questo ci parla il regista, del
fatto che dietro piccoli e grandi conflitti spesso ci sono ferite del passato
ancora sanguinanti. Difficile trovare delle mediazioni, comprendere il punto di
vista dell'altro, se non si scandaglia questo territorio tenebroso di vissuti,
di emozioni spesso rimosse, di aspettative deluse, di ingiustizie subite. Lo
vediamo nei molti episodi di cronaca, nelle cause di separazione coniugale, nei
femminicidi (visto che oggi è la giornata mondiale contro la violenza sulle
donne). E come dice l'avvocato che rappresenta Tony "nessuno ha il monopolio del
dolore" ... per cui rimbocchiamoci le maniche e cominciamo a scavare dentro di
noi!
Mimosa
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Citando
Vasco Rossi: “Corri e fottitene dell’orgoglio, ne ha rovinati più lui che il
petrolio”. Perché alla fin fine di quello si tratta, di orgoglio
ferito.
Ferito
da parole. Con conseguenze di reazioni umanissime all’ingiustizia, alla
sopraffazione, sedimentata e crescente. La rabbia monta e qualsiasi pretesto può
scatenare l’aggressività, la ricerca dello scontro fisico. Comportamenti
ancestrali.
La
miscela di orgoglio e ingiustizia, specie in area mediorientale, è
esplosiva.
L’insulto
è un film capace di farti vibrare corde intimamente nascoste. Ben costruito e
ben recitato. Ti prende. Solo il finale, un po’ troppo “educativo” è poco
credibile. Purtroppo.
Perché
sappiamo tutti che non va quasi mai così e che la pace in quei territori è una
chimera. Serve una grande capacità di “fottersene dell’orgoglio”. Quasi
impossibile.
Silente
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Seguendo la traccia pubblico - privato, mi ha colpito, rivedendolo, la brevissima sequenza della figlia avvocata che piange, come il padre di Toni, alla visione in aula del filmato sui massacri. Se il pugno ha risolto, in modo molto maschile, la giustizia nel privato, ora è il processo che deve sciogliere la questione nel pubblico. È dalla scoperta che proprio Toni proviene da quella zona, che il film cambia direzione. Alla notizia l’avvocato, (la camera è fissa sul suo volto quando scruta le carte) diventa il terzo protagonista: da difensore sembra passare ad accusatore di Toni, nella spietata ricerca di far riaffiorare la memoria rimossa. Ognuno ha la sua sofferenza: figlia e padre, forse nel ricordo della madre vittima di quelle violenze, si ritrovano, al di là dei loro ruoli processuali opposti.
Sempre rispetto al modo maschile di risolvere i conflitti (c'è solo la guerra per stabilire un vincitore e un vinto) una sequenza iniziale mostra i due modelli opposti proprio verso la bambina che deve nascere: per lei, smettila pensa alla bambina; per lui, è per la bambina che vado avanti.
Quartotempo
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Il regista, con il suo
insistere nella ripresa di alcuni dettagli inutili, l'inquietante
accompagnamento sonoro, mette quasi subito lo spettatore nella posizione
dell'investigatore alla ricerca di Alyosha e lo depista di continuo. In realtà
nessun indizio è significativo e l'unica indagine che vale la pena di fare è
quella psicologica, ma anche sociologica, per capire le motivazioni della ferita
del non sentirsi amato dai propri genitori che il bambino si porterà dentro per
tutta la vita, qualunque sia il finale del film.
E l'indagine
psicologica mi porta a considerare la disperazione di un bambino, che può
nascere dalla relazione con una madre scarsamente empatica e rifiutante ed un
padre praticamente assente, nonché il senso di insicurezza che deriva da una
separazione in cui nessuno dei genitori si assume la responsabilità del suo
collocamento presso di sé; una perdita totale di punti di riferimento affettivi
oltre che di stabilità di vita. Una miscela esplosiva che può portare al
suicidio.
Nessuno dei due
genitori ha in mente Alyosha, più preoccupati della soddisfazione sessuale che
della responsabilità genitoriale, e già proiettati nelle rispettive sistemazioni
future. Ma il trauma della scomparsa di questo figlio li segnerà entrambi e
nessuno di loro ritroverà più la serenità.
Sconcertante è la
freddezza nei rapporti interpersonali di tutti i personaggi. Si capisce che
anche la madre di Alyosha si porta dietro la ferita dei non amati ma
complessivamente tutti sono delusi, arrabbiati e incapaci di identificarsi
nell'altro e comprenderlo. Chi potrà interrompere questa catena
generazionale?
Il regista ci indica
anche poco prima del finale che non sta parlando soltanto di un problema
familiare ma della Russia intera, delle grandi trasformazioni sociali avvenute
dopo il crollo dell'URSS e l'avvento del capitalismo e soprattutto della
disgregazione delle famiglie e dei rapporti interpersonali. Come nelle ampie
inquadrature dei paesaggi di rami caduti, spezzati o
piegati.
Una grande
tristezza.
Mimosa
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Film deprimente e bellissimo, capace di metterti
costantemente in uno stato di disagio e attesa.
Questa sensazione la si prova già dalle prime scene,
quando, in un bosco di alberi neri, vediamo passeggiare il ragazzino
accompagnato da una musica inquietante e lo seguiamo mentre lancia da un albero
sporgente sul fiume un nastro bianco e rosso sui rami. Le riprese sottolineano
l’attesa, ci si aspetta il “lupo” da un momento all’altro.
Invece niente, non succede niente.
Alla fine del film, con la stessa musica, si
ripresenterà l’albero che sporge sul fiume e il nastro che pende a suggerire
dove potrebbe essersi suicidato Alyosha. La macchina da presa che punta verso il
cielo sembra confermare questa sensazione.
Che sia morto il regista lo fa capire a più riprese,
anche se noi, come la madre, non vogliamo crederci. Per esempio c’è un momento
in cui lei interroga l’Iphone sul significato di un sogno e chiede: “Ho
sognato che mi toglievano un dente, cosa vuol dire?”.
Lo
chiede dopo una notte passata insieme al nuovo compagno, senza essere quindi
tornata a casa, presagendo inconsciamente la perdita del
figlio.
Un
film che prende a pretesto una trama noir per denunciare la nuova società russa,
spersonalizzata ed egoista, succube delle nuove mode come l’uso compulsivo dello
smartphone, ma soprattutto senza amore. E da noi?
Silente
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Ottimo film con tante domande aperte. Probabile suicidio? Come detto in TV, le cattive notizie portano a …
Qualche aggiunta alla discussione.- La Brigata Chilhavisto appare tragicomica, rimanda alla caccia all’evaso, il bimbo ritrovato, ritornerà in prigione, tra punizioni paterne e acredine materna. Ottima competenza (ma allora quanti ne scappano!) da boy-scout tartufesco: nessuna assistenza psicologica alle famiglie! Per non parlare della prof che cancella la lavagna!
- Unico momento affettuoso il braccio di lui che sfiora lei nell’attimo del riconoscimento-disconoscimento… ma subito dopo lei picchia lui. Fuori dagli stereotipi questi maschi russi: poco alcool e niente botte, nel senso che non le danno.
- Il divorzio non fa cambiare esistenza, né apre ad un nuovo inizio. Così ritroviamo lei, nel mutismo della relazione, lui, annoiato, e una figlia piangente rinchiusa nel box… e la mamma non accorre! Ciak si rigira!
Quartotempo